Ricordi di vita nel ‘900 a Villa Trissino a Cricoli

A Napoleone, che già si era impadronito di Piemonte e Lombardia, Venezia si consegna senza opporre resistenza. Con il trattato di Campoformido del 17 Ottobre 1797 Napoleone cede Venezia e i suoi territori all’Austria in cambio di contropartite in Europa.

   Finisce così la millenaria storia di Venezia e le nuove idee di eguaglianza dissolvono gli equilibri socio economici assicurati per secoli dalla Serenissima Repubblica. Era l’unico Stato con potere condiviso a più livelli fra un’ampia oligarchia mentre nel mondo il potere era ovunque concentrato, per via ereditaria o di scontro, nelle mani del Duca, del Principe, del Re, dell’Imperatore, o del Sultano. Erano equilibri che contenevano certo grandi differenze sociali di potere e di reddito, ma consentivano sicurezza nel territorio, nei commerci, possibilità di crescita sociale, benessere e, in definitiva, consenso.

Non più i Trissino, ma contadini abitano Villa Cricoli nell’800. Una stampa di Moro del 1840 ne ritrae le condizioni, un sonetto di Giacomo Zanella ne piange il degrado. Nel 1898 Giangiorgio Trissino V° vendette la proprietà a un conte Sforza della Torre milanese. Questi intraprese grandi lavori e si scontrò con la Commissione conservatrice dei Monumenti che inviò il 28 Aprile 1899 tre Commissari, tra cui Sebastiano Rumor, ad ispezionare i lavori in corso. Nella sua relazione, Rumor (Sebastiano Rumor – Archivio Veneto Tridentino Vol IX 1926) descrive i guasti provocati dal Conte Sforza il quale: “Nemico di quanto sapeva di antico cancellò affreschi, decorazioni, scritte; portò via e disperse il busto posto dai Trissino ad Urbano VII; tolse persino le malte ai muri.

Questo per il Palazzo; nel frattanto egli aveva eretto un grandioso rurale per oltre cento metri di lunghezza: una serra amplissima, e aveva sostituito al muro merlato di cinta, lungo la via pubblica, una ricca cancellata in ferro battuto della Fonderia Necchi di Pavia, e pilastri di marmo agli ingressi, e sui pilastri statue allegoriche scolpite da Napoleone Guizzon”.

Il conte Sforza della Torre progettò anche per i terreni circostanti Villa Cricoli, un grande giardino mai realizzato, morì il 4 Dicembre 1913 lasciando eredi l’Ospedale di Bergamo, il Comune di Torre dei Roveri e la Colonia Alpina di Vicenza. Scoppiata la Grande Guerra, Villa Trissino, rimasta disabitata, venne requisita dall’ esercito italiano. La soffitta venne usata come prigione di guerra e conserva graffiti molto interessanti.

nessuno potrebbe immaginare lo strazio compiuto in cinque anni dai soldati. Del Palazzo rimasero soltanto mura e pareti: balconi, porte, pavimenti distrutti e asportati, molte piante del parco fatte bersaglio di tiri.

L’11 Novembre 1920 la villa venne acquistata da Francesco Rigo di Arzignano. Con quanto amore egli abbia subito cercato di riparare ai danni maggiori recati ai fabbricati e alla terra, ognuno può vedere e darne lode” Narra il Rumor .

Francesco Rigo, mio nonno materno, era uno stimato agricoltore e allevatore. Abitava con la famiglia in un’azienda agricola del veronese, a San Martino Buon Albergo, che vendette per comprare Cricoli all’asta.

Era interessato non tanto alla villa, ridotta a rudere, quanto al “grandioso rurale per oltre cento metri di lunghezza” di cui parla Rumor, era una stalla per 150 bovini da latte con sovrastante fienile, mai usata prima e modernissima per il tempo. Era interessato anche ai 60 campi circostanti, a prato stabile irriguo, irrigati dalla Roggia del Trissino che diparte dal Bacchiglione in località Livellon. Era questo l’ultimo residuo dei 205 campi che Orso Badoer vendette nel 1482 a Gaspare Trissino, padre di Giangiorgio. La stalla ha fornito per cinquant’anni, a kilometro zero, latte alimentare alla vicina Centrale Comunale del latte di Vicenza.

Nonno Francesco rese abitabile da agricoltori il rudere di villa Cricoli, usò con parsimonia materiali e mezzi del tempo: pavimenti in piastrelle di cemento, semplici porte e finestre, un bagno, un primitivo impianto elettrico, riscaldamento con i camini superstiti e con stufe in cotto BECHI a più piani. Il Catasto italiano del primo 900 censì villa Cricoli come Fabbricato Rurale!

Così si visse a Cricoli fra le due Guerre e fino all’armistizio italiano dell’8 Settembre 1943, quando con l’occupazione tedesca del nord Italia il piano terra della villa e parte del terreno vennero requisiti dalla Werhmacht.

La famiglia poteva abitare al primo piano e la stalla restare in funzione.

I rapporti furono sempre civili e corretti, ma nel ’44 il comando tedesco voleva asportare e fondere la cancellata in ferro di Cricoli posta dallo Sforza su strada Marosticana. Mio padre che conosceva perfettamente il tedesco e che nei momenti di relax ricordava Erlkoenig o Lorelei, riuscì a convincere il Comandante a lasciarla intatta. Forse evitò di ricordare Heinrich Heine, delicato autore di Lorelei e scrittore ebreo le cui opere, tradotte in italiano da mio nonno paterno, (Traduzioni di Vittorio Trettenero : Heine  Reisebilder  Figure di viaggio ed. Treves 1922 – Heine Lettere ed.Treves 1933) venivano bruciate dal Nazionalsocialismo nella Bebelplatz di Berlino come opere degenerate.

Nell’ultimo anno di Guerra, venne costruita una pista in terra battuta per disperdere gli aerei militari nella campagna. Dall’aeroporto Dal Molin la pista giungeva alla strada Marosticana, attraversava i campi di Cricoli e, con un ponte in legno anche il fiume Astichello, ritornava all’aeroporto da Nord.

Presso strada Marosticana venne costruito a Cricoli un “para-scheggie” con muri in sasso, alti quattro metri, entro i quali erano parcheggiati aerei da caccia mascherati da teli, ne ho un vago ricordo.

Per consolidare il terreno umido di Cricoli venne steso fino all’Astichello uno strato di tronchi d’albero coperto poi in cemento. Finita la guerra i vicentini avevano un grande bisogno di legna da ardere, invasero pacificamente i campi e con mazze e picconi, ruppero la copertura in cemento e asportarono tutto il legname sottostate. Nonno Francesco per anni lavorò con carri e cavalli a pulire il terreno dal pietrame rimasto che usò per rafforzare l’argine dell’Astichello.

Dopo il primo bombardamento del 23 Dicembre 1943 sulla città di Vicenza la gente correva nei rifugi o nei campi, gli abitanti di San Bortolo fuggivano nei prati di Cricoli, ma, visto dai controlli aerei il fatto, i bombardamenti continuarono anche con le bombe a spillo anti uomo.

Erano ordigni di 20 centimetri di diametro, lunghi 50, dotati di un lungo spillo che, toccando terra, faceva esplodere la bomba ad altezza d’uomo. Nel bombardamento del 19 Novembre 1944 vennero uccise nei prati di Cricoli persone ricordate nella lapide posta nella Chiesa Cuore di Maria a San Bortolo. In tale bombardamento morirono pure alcune vacche al pascolo di nonno Francesco.

Negli ultimi giorni di guerra ero sfollato con i genitori nella casa dei nonni paterni a Cornedo, posta sotto la Chiesa di San Bastian, ove Giagiorgio Trissino voleva essere sepolto, ma ove è ricordato solo da un cenotafio. Davanti alla Chiesa, nel piazzale che sovrasta la Valle dell’Agno, i partigiani avevano installata una mitragliatrice.  Avevo allora sei anni, mi era stato proibito di salire a San Bastian, ma io scappavo a vedere partigiani e mitragliatrice che per fortuna non ha mai sparato.

   Gli Americani intanto erano giunti a Vicenza, accolti con sorrisi e fiori, malgrado i bombardamenti e, dopo i tedeschi, avevano occupato il parco e parte di villa Cricoli. I nonni chiesero loro di venirmi a prendere a Cornedo ed io ricordo l’arrivo di una jeep con stella bianca ed il ritorno a Cricoli ove il parco era pieno di mezzi militari e di tanti soldati che mi davano cioccolata e noccioline americane.

   La stalla di Francesco Rigo a Cricoli rimase in attività fino agli anni 70 del secolo scorso, ma d’estate le vacche andavano in transumanza, a piedi, in montagna. Bisognava allenarle alla lunga camminata e per questo venivano fatte uscire, a spasseiare si diceva, con ciocche e bronzini sonanti sulla Strada Marosticana, giravano su Via D’Alviano, allora sterrata e senza case, proseguivano lungo l’aeroporto verso Caldogno, ritornavano, sulla Marosticana e rientravano dopo circa tre ore.  La cosa veniva ripetuta per due o tre volte prima della partenza per l’alpeggio a malga Postesina a Vezzena sull’Altopiano di Asiago, un percorso di 80 kilometri.

   Due mesi prima un operaio era salito con carro e cavallo ad aprire la malga e soprattutto a piantare l’orto. La sera prima della partenza venivano fissati su un caretòn a due ruote caldaia in rame, bacini di affioramento panna, zangola per fare il burro, il triso per rompere la cagliata, viveri ed altri attrezzi. Al mattino seguente le vacche, munte prima dell’alba, partivano condotte a piedi dal Casaro e da tre uomini che accompagnavano il suono delle loro“ciocche” al canto:

“Din don  Din Don  Din don
Tre tete al casaro e una al paron”
(La mammella della vacca ha quattro capezzoli)

   Seguiva la mandria il cavallo con il caretòn al quale erano legati i due cani: Adua e Vally che una volta ritornò da sola a Cricoli da Vezzena. Salita la strada allora sterrata del Costo, la mandria arrivava nel pomeriggio a Treschè Conca, le vacche venivano munte e passavano la notte in piazza. La mattina seguente, munte di nuovo, partivano per Vezzena ove giungevano a Malga Postesina nel primo pomeriggio.

   Le malghe di Vezzena erano  caricate”, così si diceva, quasi tutte da vicentini che le prendevano in affitto dal Comune di Levico : malga “Postesina  da nonno Francesco Rigo,  I Sassi” da suo fratello Domenico con azienda agricola e stalla a Villa Chiericati a Vancimuglio, malga “Costo di sotto” da Tito Boschetti, loro parente da Bolzano vicentino, malga “Le Fratte” dai Pavin. Il formaggio Vezzena, veniva marchiato a fuoco in malga ed era molto apprezzato, soprattutto quello stravecchio portato per questo a Cricoli a stagionare.

    Dal 1946 al ’51 ho passato l’estate con famigliari nell’ unico albergo di Vezzena, ma in bicicletta, ero quasi sempre in “Malga Postesina” ove conducevo con i “vaccari” la vita di malga seguendo le bestie al pascolo e alla mungitura che avveniva all’aperto in un recinto, periodicamente spostato, detto “la mandra”.
   Rigatoni, nella coppa di legno della malga, con tanto burro fresco e formaggio Vezzena vecchio gratuggiato sopra, è il cibo più buono dei miei ricordi !

   Fra l’albergo Vezzena e malga Postesina passavo in bicicletta davanti alla chiesetta in tronchi di legno, ormai cadente, dedicata a Santa Zita.

Fu costruita nel 1917, dopo che la Strafexpedition austriaca aveva spostato il fronte oltre Asiago e venne inaugurata dall’ Imperatrice Zita d’Asburgo, moglie di Carlo I, ultimo Imperatore, beatificato nel 2004 da Papa Woytijla.

Qualche anno fa vidi crollata la chiesetta in legno di Santa Zita che Alpini e Kaiserjaeger hanno poi ricostruita in forme vicine ai miei ricordi, ma in muratura.

   Prima della grande Guerra Vezzena era territorio dell’Imperial Regio Governo del Kaiser und Koenig Francesco Giuseppe ed io, fresco di studi elementari sulla liberazione di Trento e Trieste dall’oppressione austriaca, provai un giorno a parlarne a Vezzena con un trentino non più giovane: “eh no no” mi disse “ti non te capissi gnente, quelo de Cecco Bebbe sì che gera un governo serio. No quelo dei ‘taliani che xe vegnù dopo” !

   Rimasi sgomento e incredulo, ma così cominciai a capire che le verità hanno spesso più aspetti da conoscere e da meditare: fu una scuola di vita molto utile.

   Sorge a proposito altro ricordo ben più recente: ero a messa in Agosto a Grado nell’affascinante basilica del V° Secolo (Epoca nella quale le Chiese dell’Illiria e della Dalmazia aderivano allo Scisma Tricapitolino del Concilio di Antiochia del 451) di Santa Eufemia affollata per una qualche ricorrenza al suono di musica a me sconosciuta. Chiesi quindi alla fine informazioni a persona attenta e partecipe.  Mi disse: si ricorda il genetliaco di Francesco Giuseppe ed anche la beatificazione del successore Carlo I° e se canta a Serbidiola !. Non sapevo cosa fosse questa Serbidiola.

   Su musica di Haydn, è il Kaiserhymne prima del Regno Lombardo veneto, poi dell’Imperial Regio Governo, K und K, di Francesco Giuseppe, nella sua parte italiana di Trento e Trieste.

   Il testo tedesco è stringato e conciso : Gott erhalte, Gott beschuetze unsern Kaiser, unser Land, ma in italiano venne diluito in : Serbi Dio l’Austriaco Regno, guardi il nostro Imperator: popolarmente conosciuto come la Serbidiola!

La funicolare per trasporto tronchi a Vezzena

   Il trasporto del legno dalle Alpi alla pianura è avvenuto fin dai Romani, con la fluitazione nelle acque del Piave, del Brenta, dell’Adige.

Dalle Dolomiti i tronchi scendevano nel corso del Boite o del Cordevole verso il Piave, erano controllati dai Menadàs con lunghi anghièri per evitare ingorghi e convogliati alle segherie presenti nell’alto corso del Piave ove venivano squadrati e tagliati a misure fisse, si formavano poi zattere che scendevano verso la pianura e verso Venezia mantenute al cento della corrente dai Zatèr che ritornavano, a fine turno a piedi al loro punto di partenza.

   Le zattere servivano anche al trasporto di cose e Persone.

   La natura carsica delle Prealpi vicentine ha da sempre assorbito tutte le acque piovane e non ha permesso la formazione di corsi d’acqua superficiali verso la Pianura.

I tronchi d’albero venivano quindi trascinati da cavalli al bordo degli altopiani e fatti scivolare a valle. La via più spettacolare è la Calà del Sasso : una canaletta selciata fiancheggiata da 4.444 gradini  dai quali si controllava lo scivolo dei tronchi per 810 metri di dislivello da località Sasso sull’Altopiano di Asiago a Vastagna sulle rive del Fiume Brenta lungo il quale i tronchi fluitavano poi verso la Pianura.

   Ma in epoca moderna: negli ultimi anni 40 del Secolo scorso venne costruita a Vezzena una funicolare su piloni in legno per il trasporto di tronchi attraverso l’altopiano fino al bordo strapiombante sul Lago di Levico. Per noi ragazzi la sfida era farci trasportare dalla funivia in barba a tutti i divieti.

    Dove il fascio di due / tre tronchi passava vicino a terra avevamo costruito un rialzo dal quale si poteva facilmente salire sui tronchi e venir trasportati per qualche centinaio di metri, ove si poteva saltar giù senza pericolo. Per un po’ tutto andò bene, ma un giorno la funicolare si arrestò mentre eravamo in un punto ove lo scendere era troppo alto e pericoloso. Lunga attesa con ansia e allarmi, poi la funicolare ripartì e potemmo saltar giù più avanti al solito posto.

   Seguirono rimproveri e punizioni, rimase però il ricordo di una piccola impresa da ragazzi e il dubbio che l’arresto fosse voluto per creare spavento e farci smettere!

Vicenza, 20 Novembre 2024

Vittorio Trettenero

Immagini storiche